Conseguenze internazionali dell’assalto al consolato di Bengasi

L’attacco al consolato Usa e la morte dell’ambasciatore Stephens impongono una pausa di riflessione agli entusiasti della cosiddetta primavera araba. L’impatto sui governi occidentali e sulla gestione politica e retorica della guerra civile in Siria.

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Carta di Francesca La Barbera tratta da Limes 2/12 “A che serve la democrazia?” – clicca sulla carta per ingrandirla

L’importanza del misterioso film che prende in giro Maometto (film che forse neanche esiste), la concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre, la premeditazione delle proteste, la partecipazione alle stesse di nostalgici di Gheddafi o di jihadisti vicini ad al Qaida – di cui il giorno prima il capo Ayman al Zawahiri aveva confermato l’eliminazione del numero 2, un libico, ad opera degli Usa – al momento sono delle incognite. Alcune di queste incognite possono essere estese alle manifestazioni anti-americane e anti-occidentali in altri paesi arabi, Egitto, Yemen e Sudan in particolare.

Le conseguenze sulla politica internazionale sono invece più intellegibili e toccano vari livelli.

Negli Usa è probabile che lo spazio dedicato dai due candidati alla presidenza ai temi di politica estera si riduca ulteriormente; la visione dell’America nel mondo non è un argomento con cui si guadagna il voto dell’elettorato a stelle e strisce, perciò finisce raramente al centro dei discorsi durante la campagna elettorale; le recenti convention dei due maggiori partiti lo hanno confermato. Certo, Obama potrebbe tentare di capitalizzare l’uccisione di bin Laden e la fine della guerra in Iraq e Romney potrebbe insistere che al Qaida non è stata sconfitta, se fosse dimostrato il suo coinvolgimento a Bengasi. Ma il presidente ha già inviato navi da guerra e marines per evitare l’accusa di essere soft on terror e il candidato repubblicano non è stato in grado di offrire una critica sensata dell’operato di Obama in questa occasione – tutt’altro.

Agli entusiasti della cosiddetta “primavera araba” (soprattutto in Occidente) gli eventi di questa settimana impongono una riflessione. Non è la prima volta che, dopo aver salutato la presunta caduta dei dittatori, dai paesi che si immaginano in via di democratizzazione arrivano segnali preoccupanti. Era già capitato al Cairo, dove a novembre l’esercito aveva sparato contro i manifestanti a piazza Tahrir, come negli ultimi giorni di Mubarak; sempre dall’Egitto erano suonati due campanelli d’allarme con minore impatto emotivo ma maggior valenza geopolitica: l’assedio all’ambasciata israeliana (settembre 2011) e la progressiva instabilità del Sinai [carta], dove l’autorità dello Stato si avvia ad essere un ricordo.

Questa volta il segnale è ancora più evidente: è stata attaccata la sede diplomatica del paese che – pur avendo lasciato le luci della ribalta a Francia e Regno Unito – più di tutti ha impedito la distruzione di Bengasi e determinato la fine del regime di Gheddafi; per la prima volta dal 1979 è stato ucciso un ambasciatore statunitense. Al dato politico si aggiunge l’emozione suscitata dalle strazianti immagini degli ultimi momenti di vita di Stephens, descritto da molti come vicino non solo professionalmente ma anche umanamente alla causa della libertà per la Libia.

La distinzione tra “buoni” e “cattivi”, che ai governi occidentali e a Bernard-Henry Lévy appariva chiarissima e utile a giustificare la guerra di Libia e l’appoggio ai manifestanti/insorti di gran parte del Medio Oriente (con la silenziosa eccezione del Bahrein, naturalmente), all’improvviso diventa più sfumata. L’entusiamo, per certi versi irrazionale ed eccessivo, per la cosiddetta “primavera araba” si raffredda e corre il rischio di essere sostituito da un’altra paura, parimenti irrazionale ed eccessiva: quella “dell’inverno islamista”. Sarà necessario tenere a mente che nel 2011 non sono scesi nelle piazze arabe solo i lettori di Voltaire e che oggi non governano i seguaci di bin Laden; l’anno scorso è iniziato un processo lungo, in cui alle pressioni (non tutte filo-democratiche) dei manifestanti si contrappone la resistenza delle élite al potere, senza dimenticare gli interessi delle potenze internazionali. L’esito di questo processo è tuttora incerto.

Indirettamente, l’assalto di Bengasi fa gioco a Bashar Assad: il presidente, per quanto ormai screditato e considerato in Occidente e in una parte crescente del Medio Oriente un problema piuttosto che una soluzione per la Siria, insiste da tempo sul rischio di una deriva jihadista in caso di vittoria dei ribelli. La presenza di terroristi vicini ad al Qaida tra le file dell’opposizione al suo regime, per quanto minoritaria e non amata dall’Esercito libero siriano, è stata provata ed è uno dei motivi della ritrosia occidentale a aumentare il sostegno militare agli insorti.

Certo, l’Europa (alle prese con la crisi economica) e gli Usa (alle prese con la crisi economica europea e con le elezioni) non hanno nessuna voglia di farsi coinvolgere in un nuovo conflitto, soprattutto fino a quando l’opposizione politica siriana rimarrà divisa al suo interno e scollegata da chi combatte sul territorio. Anche se la guerra civile si avvia a diventare un nuovo scenario del confronto tra Stati arabi sunniti&Usa da una parte e Iran dall’altra e anche se l’emergenza umanitaria sta diventando insostenibile dentro e fuori i confini siriani, la Nato si terrà ancora lontana da Damasco. Gli assalti alle ambasciate occidentali possono contribuire indirettamente ad allentare l’attenzione e la pressione dell’opinione pubblica occidentale sui propri governi per un’azione immediata contro Assad.

Cina e Russia sostengono il regime siriano da tempo per motivi economici, militari (base russa a Tartus) e soprattutto di principio: non credono che si debba intervenire militarmente contro un governo solo perchè questo reprime le manifestazioni a favore della democrazia. Mosca e Pechino hanno più volte dichiarato di temere che una soluzione che non sia politica possa gettare il paese e potenzialmente la regione nel caos. Gli eventi libici appaiono agli occhi russi e a quelli cinesi come la conferma delle loro paure e dell’importanza della non-ingerenza.

L’assalto al consolato di Bengasi per ora raffredda gli entusiasmi sulla primavera araba: rimane da vedere se sarà in grado di alterare le posizioni delle grandi potenze.

 

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