Lettera al figlio che non avrò.

Fare i conti con il proprio futuro prima ancora che con il proprio passato è forse il primo accorgimento necessario per chi oggi oltre la soglia dei trent’anni è obbligato a gestire con adeguata calma le nevrosi e i disequilibri emotivi dati da un ambiente sociale decadente e restio al ricambio generazionale.

Linda Lê è una delle autrici più interessanti del panorama francese degli ultimi anni. Con Lettera al figlio che non avrò (Barbès editore, pp. 96, € 12. Traduzione di Tommaso Gurrrieri) del 2011 ha saputo sintetizzare e dare forma al principale fantasma di una generazione obbligata alla precarietà diffusa da un sistema che prima ancora che espellerla non ha mai contemplato la possibilità di un suo ingresso. L’assenza è la vera protagonista di un libro che ha certamente nella maternità il suo cuore, ma che, nel delineare l’esistenza come un insieme di scelte a priori piuttosto che come una serie di possibilità se non di preferenze, definisce l’amara e angosciante quotidianità delle nuove generazioni indotte a sostituire il futuro con un eterno presente accelerato.

 Sovrastata da un passato borghese e ricco, la voce narrante racconta con fulminante lucidità quanto è caro il prezzo per emanciparsi da un’illusione: l’illusione che sale dal passato e che pretende d’installarsi nel presente con un carico assurdo quanto vacuo di regole e indicazioni tutte false e ipocrite. Poste come fondamenta di una presunta epoca d’oro e già in passato profondamente disattese dai reali comportamenti delle persone, questa sorta di istruzioni che dalla famiglia borghese fanno discendere ogni ordine sociale non sono altro che il paravento ideologico di un consumismo affamato di feticci.

Ai margini di un tessuto sociale che propone come unico binario quello tra vincenti e perdenti, diviene normale vivere con l’assenza e con i suoi fantasmi quali unici possibili elementi reali di confronto e di crescita. L’illusione come la disillusione agiscono allo stesso modo sciogliendo in un diffuso e irrazionale malcontento ogni critica e ogni possibile forma di opposizione.

Ed è proprio la lucidità dell’autrice nel definire errori e soluzioni che più stupisce in una narrazione che, se parte affondando un po’ troppo nel terreno di una retorica grave e austera, poi cresce maturando una scrittura che supera di gran lunga il pamphlet per diventare letteratura in pagine di rara eleganza e passione. Secco breve e diretto, Lettera al figlio che non avrò è una dichiarazione di amore materno assoluto per quel figlio inesistente.

Andare contro natura è l’ultimo bene contrattabile, l’ultima possibilità di scambio per un futuro migliore; ma negare se stessi è anche una forma di compiacimento, tanto più drammatico in quanto segno di un necessario bisogno d’amore che non può più permettersi di trasformare un figlio in uno specchio. Linda Lê immagina le possibili variazioni di carattere e di aspetto che avrebbe avuto suo figlio e immagina le possibili discussioni che l’avrebbero coinvolta durante la sua crescita, ma smette d’immaginare poche righe prima della fine, quando una certezza attraversa le sue pagine, quella di un esclusivo e totale amore che prova, mutandola per sempre, per quel figlio privo di esistenza che non ha voluto e a cui ora scrive una lettera quale suo unico destinatario.

 

Fonte: articolo firmato da  Giacomo Giossi  e pubblicato su doppiozero.com

 

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