Femminicidio, l’apocalisse dell’altra metà del cielo.

Femminicidio è un neologismo reso necessario dalla cronaca. L’articolo che segue, firmato da Nicole Janigro, offre un’accurata analisi del fenomeno che partendo dagli agghiaccianti dati numerici ariva a individuarne le cause definite principalmente da aspetti antropologici, psicologici e sociologici.

A pugni e calci, a coltellate, con oggetti casalinghi utili alla bisogna: tra le pareti di casa si uccide così. La vittima è a terra, ha urlato e ha cercato di difendersi, l’esecutore è in fuga. I vicini accorrono, a volte c’è un bambino, a volte chi ha commesso il crimine cerca di suicidarsi. Sono delitti domestici dove il copione è sempre lo stesso: l’assassino è uomo, il cadavere è donna. Dall’inizio dell’anno sono 100, una morta quasi ogni due giorni. Brescia, Pavia, Enna, pochi giorni fa un quartiere elegante di Padova. La statistica forma una linea trasversale che attraversa le età (tra i 18 e i 77 anni) e le regioni, gli ambienti e le classi sociali. Il femminicidio avviene in privato ma ha un inevitabile significato pubblico.

 La cronaca racconta una scena del delitto che si ripete: si è appena mangiato, si è appena cambiato il pannolino, c’è appena stato un incontro amoroso. Poi la rottura violenta, spesso descritta come un raptus. Perché è difficile immaginare che il marito, l’ex marito, il partner, l’ex partner (è così nell’87% dei casi) possa diventare il nemico mortale. Che sia l’amore a diventare quell’odio che produce la distruzione dell’oggetto d’amore.

 In Italia gli omicidi sono in calo, un terzo rispetto a vent’anni fa. La violenza contro le donne segna invece un’escalation – 84 casi nel 2005, 127 nel 2010. L’Eurispes, nel rapporto Italia 2011, scende nel dettaglio: dei 103 omicidi (su 235 omicidi domestici) che hanno riguardato “innamorati”, “gli autori sono stati principalmente mariti o conviventi (63,1%), ma anche fidanzati/ex amanti (15,5%), fidanzati, amanti, rivali o spasimanti (13,6%) ed ex coniugi o conviventi (7,8%). Per quasi 6 autori su 10 il movente è stata “la gelosia, la non rassegnazione alla separazione o a un abbandono”. Aumentano gli stupri (dai 430 del 2010 ai 578 del 2011), gli episodi di stalking (da 932 a 1084). Ma anche le denunce che nel 40% dei casi sono arrivate prima del crimine.

 Il “sesso più bello” è bersaglio nel mondo intero. La violenza maschile costituisce la prima causa di morte al mondo per le donne tra i 16 ed i 44 anni. Una donna su quattro subisce violenza fisica nei paesi detti in via di sviluppo, il 10% è vittima di abusi sessuali. Ogni case study ha la sua tradizione, la sua religione, la sua spiegazione – in Sud Africa come in Congo, in Algeria come in Palestina. Delitti passionali in Occidente diventano delitti d’onore in Oriente.

 Femminicidio è un neologismo introdotto dalle sociologhe, antropologhe e criminologhe che si sono occupate di Ciudad Juàrez, località al confine naturale tra Stati Uniti e Messico, dove lo sfruttamento in fabbrica e il traffico di coca hanno esaltato il machismo, e i numeri degli omicidi sono quelli di una strage. La trasformazione da femmicidio, termine introdotto negli anni Settanta dalla femminista Diana Russell per definire l’uccisione della donna in quanto donna, in femminicidio è il segno, anche, di un cambiamento storico: il passaggio dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico e internazionale del delitto di genere. Il 25 giugno 2012, per la prima volta ai delegati di tutti i Paesi del Mondo, riuniti a Ginevra, nel Palazzo delle Nazioni Unite, al Consiglio dei Diritti Umani, è stato sottoposto un Rapporto tematico sugli omicidi basati sul genere. E il Comitato per l’attuazione della Convenzione ONU per l’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne aveva già chiesto agli Stati – tra cui Messico e Italia (unico Paese europeo, nel 2011!) – di adottare misure specifiche per proteggere le donne dalla violenza, soprattutto domestica.

 La matrice è comune, il fenomeno planetario unisce la barbarie della tradizione (o l’invenzione della tradizione come in molte realtà del mondo musulmano) al rigetto della modernità. Una separazione, del regista iraniano Asghar Farhadi, racconta la storia di una coppia che ha ottenuto un visto per lasciare il paese. Nader però non vuole partire, così Simin chiede il divorzio, non accetta il ricatto degli affetti. Del litigio familiare diventano colpevoli tutte le altre donne. Il film, capace di rappresentare l’Iran attuale, è però anche una metafora universale: gli uomini barcollano, temono che la loro virilità si riveli superficiale, diventano carnefici perché si sentono vittime. Isolano e svalutano, segregano e umiliano, sentono che il “secondo sesso” non si sente più tale: non sono più gli uomini la motivazione vitale.

 In Europa le donne che subiscono una qualche forma di violenza sono, a seconda dei paesi e degli anni, tra il 20% e il 50%. È una guerra fredda tra i sessi che non è possibile esorcizzare perché non si concentra nei quartieri isole degli immigrati stranieri. Ogni dieci giorni nelle democrazie scandinave muore una donna, la metà delle donne svedesi sono state picchiate almeno una volta nella vita. Il film di Anders Nilsson, Racconti da Stoccolma, ha stupito per la sua crudezza proprio perché scaturito da una realtà emancipata, ed è ancora uno scrittore svedese, Richard Swartz, a essere stato attaccato dalle femministe per un libro il cui titolo può essere reso con Menzogne coatte – sei racconti dove l’Uomo e la Donna sono figure antropologiche che si ingannano in silenzio senza avere un nome, il maschile si vendica del disinteresse femminile trattando le partner come prostitute.

 Il caso jugoslavo, inesorabilmente europeo, può aiutare a riflettere. Come interpretare la violenza immane che colpisce la parte femminile della popolazione durante il conflitto degli anni Novanta del Novecento? Lo stupro di guerra era strategico – nel giugno 2008 la risoluzione 1820 del consiglio di sicurezza dell’Onu lo definisce un’arma di guerra – ma le forme diffuse di violenza contro le donne, tuttora numericamente significative (soprattutto in Serbia) riguardano la questione femminile. Perché in ex-Jugoslavia l’emancipazione femminile non era solo una facciata, formale e legislativa. Le donne guidavano i treni e i tram, dal secondo dopoguerra c’era la legge sul divorzio, c’era il diritto all’aborto, ma c’era dell’altro. Contrariamente ad altri paesi dell’allora Est, era una società molto meno puritana – secondo alcune studiose è proprio un legame perverso tra emancipazione e pornografia, tra controllo sul proprio corpo e sua esibizione che può spiegare l’“eccesso” dello spregio sfogato sul soggetto femminile.

 Chi oggi in Italia uccide reagisce alla velocità della trasformazione – da regno della mamma a paese con uno dei più bassi tassi di natalità del mondo. Spesso ha una storia traumatica alle spalle, sempre però si rivelano uomini che non sopportano di essere lasciati, uomini che non possono immaginare di rimanere senza quello che credono un loro possesso, uomini che se perdono la loro donna perdono la loro identità, uomini che devono uccidere e poi uccidersi perché insieme al corpo dell’altra hanno distrutto il proprio femminile. Se questi sono gli uomini del giornalista Riccardo Iacona (appena uscito da Chiarelettere editore) raccoglie le storie dei carnefici. Uomini che non conoscono più la legge del padre ma solo la sua trasfigurazione violenta. Uomini che odiano le donne perché queste riescono dove loro stanno fallendo, amano lavori e progetti, soffrono meno la disoccupazione e la perdita di status sociale. Uomini che perdono potere, devono diventare violenti per continuare a dominare, uomini senza compagnia che non sopportano che la donna sia mobile, che possa sfuggire a costrizioni e controlli e riesca in quello che per loro è più difficile: vivere soli.

 

Che non riescono più a imporre il Vuoi star zitta, per favore?, e allora devono chiudere loro la bocca per sempre.

 

Fonte: doppiozero.com

 

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